Per comprendere fino in fondo i racconti scritti da Viviana Gabrini e pubblicati nella raccolta “I fili di Arianna” (Primula Editore, 2015) servono due strumenti: il sorriso e lo stupore di riconoscersi. Il primo nasce da solo, perché anche i racconti di tema più drammatico rivelano qua e là un’ironia che è propria dell’autrice e che corrisponde alla capacità di vedere l’altro lato della medaglia, di percepire il banale e il grottesco e di farne cenno, senza mai dichiararlo. Riconoscersi nelle figure femminili protagoniste è semplice, in fondo: gli eventi che le vedono in azione non sono mai straordinari, ma attinti dalla quotidianità. La capacità richiesta è quella di stupirsi, guardando la proiezione di un sé sotto una luce inattesa e, sino al momento della lettura, inconsapevole. Far sorridere e far stupire sono qualità che derivano sia dall’indole sia dall’osservazione e Viviana Gabrini sa osservare, memorizzare e, come dimostra anche la sua passione per la fotografia, fissare momenti, gesti, oggetti, sguardi. Prima de “I fili di Arianna”, 23 racconti che parlano di donne e dei loro mondi, Viviana Gabrini ha pubblicato in serie limitata un libro – diario fotografico del suo viaggio americano compiuto nel 2013 “Due sulla Route 66 – 7379 chilometri da New York a Los Angeles attraverso il mito della R66”. Le foto di Viviana Gabrini – ed è lei stessa a spiegarlo – non nascono dalla tecnica ma dall’intuizione dell’attimo e dalla sensazione. Infatti, sono sensazioni quelle che le immagini di Viviana Gabrini suscitano. Così come sensazioni sono quelle suscitate dalle 23 donne dei suoi racconti.



D.: Quando hai iniziato a scrivere i racconti de “I fili d’Arianna”?

R.: I primi risalgono al 2007, ma ancora non c’era l’idea di raccoglierli in un libro. Alcuni furono pubblicati in un blog letterario. I racconti pubblicati sono il risultato di una selezione, da cui sono rimasti esclusi i racconti in qualche modo superati.


D.: Perché scrivi racconti e non poesie?

R.: Amo molto la poesia, ma sono consapevole che occorrono capacità e attitudini non comuni per scrivere poesie e far poesia nel senso vero della parola. Il racconto breve è invece nelle mie corde, mi piace la sintesi, condensare azioni e concetti in poche righe, la brevità.


D.: Si dice che in Italia il “genere” racconto non funzioni molto.

R.: Sì, questo è anche vero, almeno come tendenza di lettura. Ed è stato uno dei motivi per cui ho deciso di pubblicare un libro di racconti, uno stimolo ad entrare in un ambito meno valutato di altri. Il risultato, sinora, è stato positivo.


D.: Le donne di cui parli sono te o sono diverse da te?

R.: Molte sono “rubate” dalla realtà, persone che ho conosciuto, ma anche persone incontrate per poco tempo, in brevi dialoghi. C’è molto di me nei tratti che le accomunano: indipendenza, autonomia, autodeterminazione.


D.: Queste caratteristiche rappresentano ciò che sei o ciò che vorresti essere?

R.: Ciò che sono.


D.: Mai pensato a scrivere un romanzo?

R.: Ci sto lavorando da qualche tempo, ma sarà qualcosa che nessuno s’aspetta, un modo diverso di fare introspezione, diciamo.


D.: Il mondo dei libri attraversa una fase critica, le persone leggono sempre meno. Perché scrivere libri?

R.: E’ una questione di resistenza intellettuale. Non bisogna smettere di scrivere libri, anche se i lettori sono pochi, bisogna scriverli per chi legge ora e per chi leggerà in futuro.


D.: Tu abiti in Oltrepò Pavese, in provincia. E’ possibile far cultura in provincia?

R.: E’ difficilissimo. L’ho provato anche con il teatro, seguendo corsi di recitazione con una compagnia molto preparata di Travacò, l’ISV. Docenti di lunga e importante esperienza, attori, registi riconosciuti: la risposta del pubblico agli spettacoli è sempre stata per così dire “esclusiva”, nel senso che il pubblico è quello di chi già sa, conosce, frequenta, pochi volti nuovi, curiosi di vedere e conoscere.


D.: Perché, a tuo avviso?

R.: Forse perché non c’è mai stata una vera tradizione culturale profonda. Non solo manca interesse, ma manca anche chi cerchi di suscitare interesse. Vero che si dice che la cultura non dà da mangiare, quindi viene trascurata, anche se non è del tutto vero, anzi. Purtroppo, però, si prediligono cose più redditizie e immediate.


D.: Malgrado ciò, continui a vivere in provincia…

R.: Sì, ma soltanto per pigrizia. In questa provincia c’è una effettiva scarsa sensibilità ai patrimoni, basti pensare ai castelli privati, chiusi, non stimolati ad aprire oppure a certe costruzioni in mezzo alle campagne, iniziate e abbandonate. Non a caso, sto vivendo la seguente situazione: gli stimoli e i coinvolgimenti mi arrivano da fuori dalla provincia di Pavia, da quelle vicine che hanno un tessuto culturale attivo, attento, dinamico. Qui si parla molto, ad esempio da decenni si parla di “rilancio” del territorio, ma manca l’humus culturale per passare dalle parole ai fatti.




Autrice del Libro: Viviana Gabrini

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